Metodologia per la ricerca: l’analisi comparativa dei kata.

Dopo oltre sessant’anni di folclore e di miti diffusi a tutti i livelli nel mondo delle arti marziali, è finalmente iniziata in quest’ultimo decennio una minima produzione di ricerche storiche di qualità sul karate antico, basata sulle poche fonti bibliografiche oggi disponibili. Le pubblicazioni di un certo valore scientifico sono ancora molto poche proprio per la mancanza di fonti secondarie (quelle scritte) e di fonti primarie (i capiscuola e i loro allievi diretti che possono riportare di prima mano le informazioni), come in uso nella ricerca storica. Altra difficoltà è costituita dal fatto che, come noto, l’apparato storico-tecnico delle singole scuole è ancora oggi tramandato oralmente e solo all’interno delle scuole stesse. In questa situazione è giocoforza che molti studiosi improvvisati abbiano prodotto e continuino a produrre ricostruzioni storiche molto fantasiose perché basate esclusivamente su impressioni personali prive di ogni fondamento. In un certo senso, siamo ancora all’anno zero degli studi accademici in questo campo.

Lo scopo di questo articolo, dunque, è quello di invitare gli studiosi che vogliano affrontare questa ricerca a dotarsi di un metodo solido per procedere correttamente, producendo materiali che non abbiano la pretesa di rivelare verità assolute ma forniscano ad altri ricercatori solide basi su cui proseguire quella ricerca. Il metodo in uso nelle scienze più vicine a questo ambito di studi (come possono essere l’etnologia e l’antropologia strutturale)[1] si basa innanzitutto sul riscontro delle analogie fra diversi oggetti, sulla verifica delle fonti che li descrivono, sul tentativo di ricostruire la dinamica della diffusione di quegli oggetti e la cronologia sulle antecedenze, e infine sulla formulazione di ipotesi (sempre modificabili) che abbiamo un minimo di fondamento per aprire poi, con la loro condivisione, la strada al lavoro di altri ricercatori. È un po’ come quando si fa una cordata per scalare una montagna: si piantano rampini solo quando si è sicuri di aver trovato un appiglio solido, altrimenti si cade trascinando con sé anche quelli che vengono dopo. È chiaro, nel caso della ricerca sui kata, che se si resta ancorati a ipotesi pittoresche come quelle formulate intorno al kata Chinte della scuola Shotokan (definito per pura ignoranza “kata femminile” o i cui saltelli finali sarebbero delle “schivate per evitare colpi di spada”), la ricerca non arriverà mai da nessuna parte e tutta la “cultura” del karate resterà risibile folklore autoprodotto, non degno di serio approfondimento.

Vediamo quindi di fornire una griglia metodologica per procedere correttamente, passo dopo passo, in questo affascinante panorama ancora tutto da esplorare.

UN ESEMPIO

Qui di seguito vogliamo dare un esempio di come può essere sviluppata una ricerca storica sull’origine e l’evoluzione di un kata. L’obiettivo non deve essere mai quello di arrivare ad affermare che due forme sono “la stessa forma”, oppure che una ha generato l’altra, perché non esistono certezze assolute nemmeno sulla trasmissione fino a quando non si trovino le fonti che dimostrino quanto si sta affermando. L’atteggiamento scientifico si basa invece sul mantenere aperte tutte le possibilità e sul continuare a verificare quali siano le interpretazioni più solide o verosimili, sulla base delle evidenze. In questo caso abbiamo due kata storici: il più recente è il Tensho del Goju Ryu e il più lontano storicamente è il Siu Nim Tao della scuola cinese Wing Chun. Cosa risulta subito da un’analisi delle tecniche e della struttura stessa dei kata? Ci sono molti punti in comune che dovrebbero far insospettire i ricercatori e indirizzarli verso una ricerca più approfondita:

  1. Entrambe le forme utilizzano una posizione delle gambe “a clessidra”.
  2. La forma cinese resta sul posto mentre quella okinawense si sviluppa su tre passi (ma ciò non è sufficiente a stabilire che la seconda non possa essere stata praticata anche da fermo come quella cinese o, viceversa: confrontando ad esempio il kata Sanchin del Goju Ryu con varie versioni della forma cinese Saam Chien della Boxe dei Cinque Antenati, si scopre che forme analoghe della stessa tradizione potevano essere eseguite indifferentemente da fermo o su tre passi).
  3. Entrambe le forme restano frontali rispetto al punto d’osservazione e non contengono cambiamenti di fronte.
  4. Le forme contengono tecniche di braccia molto simili fra loro.
  5. Entrambe le forme si eseguono lentamente (nel Goju Ryu è stata introdotta una respirazione forzata e la tensione dinamica, ma in alcune scuole di Wing Chun si applicano gli stessi criteri di esecuzione, sia pure in forma meno forzata).
  6. Alcune tecniche come la parata con la mano a testa di gru sono presenti in entrambe le forme e presumibilmente con la stessa funzione.

A questo punto cosa può (e deve) fare un ricercatore?

  1. Cercare analoghe forme in tutte le tradizioni precedenti e non successive, per iniziare una classificazione su questo genere di kata. Il che significa che se esistesse per assurdo un kata simile in un’arte marziale più recente, questo non farebbe alcun testo, la ricerca va condotta invece all’indietro storicamente perché la forma tramandata a Okinawa è l’ultima che abbia un albero genealogico ininterrotto e verificabile. Il che significa anche cercare di raccogliere i dati sempre dall’interno delle scuole, magari recandosi sul posto o tramite corrispondenti, e non su Youtube come fa la maggior parte dei pretesi ricercatori oggi. Ciò che è reperibile in Internet non è affatto affidabile e non è la totalità dell’informazione reperibile.
  2. Confrontare e classificare le forme analoghe in base al numero delle ripetizioni delle singole tecniche.
  3. Confrontare e classificare le rispettive tecniche in base alle loro applicazioni.
  4. Confrontare gli alberi genealogici delle rispettive tradizioni per verificare se c’è stata possibilità di trasmissione delle tecniche da un ambito all’altro.
  5. Verificare per quanto possibile i periodi e le scuole con cui il caposcuola del kata più recente ha avuto scambi con insegnanti cinesi, e di quali scuole.
  6. Verificare quali modifiche sono state introdotte sulle originarie tecniche cinesi, in quale periodo e in base a quale interpretazione tecnica o tradizione okinawense.

Ovviamente i parametri da confrontare o verificare possono essere molti di più, e tutto questo deve andare a implementare un database storico-tecnico che permetta di stabilire con un’accettabile approssimazione tutti i percorsi di diffusione di una singola tecnica o di un singolo kata tra la Cina e Okinawa. Sarebbe scorretto, tuttavia, “forzare” la ricerca con l’obiettivo di identificare ad esempio un canovaccio comune di base su cui le scuole cinesi e okinawensi si sono limitate ad apportare delle “variazioni”, perché qui il passaggio da un’area geografica a un’altra, da una scuola all’altra, ha comportato anche diversi secoli di differenza, e non pochi decenni come nel caso delle variazioni apportate a un kata da allievi provenienti dallo stesso albero genealogico o dalla stessa scuola e nella stessa area geografica. Si può viceversa andare alla ricerca di un canovaccio di base (quello che potrebbe essere definito il modello X), comune fra le varie versioni di uno stesso kata, all’interno di una stessa scuola o fra i maestri che hanno studiato con lo stesso caposcuola del karate antico, ben sapendo ad esempio che lo stesso caposcuola può aver insegnato versioni diverse dello stesso kata in periodi diversi della sua vita in base alle applicazioni che lui stesso stava studiando per la propria pratica personale.[2]

Questo lavoro meticoloso e difficile servirà a correggere errori fondamentali nella storiografia del karate, errori in cui sono caduti perfino capiscuola del 900 come lo stesso Gichin Funakoshi, con l’immensa confusione da lui generata con la classificazione dei kata secondo le categorie Shorin e Shorei, confusione solo recentemente chiarita da ricercatori coscienziosi come McKenna,[3] che non ha mancato di sottolineare comunque la buona intenzione iniziale di Funakoshi, purtroppo non dotato di un corretto metodo storiografico e costretto quindi a inventarsi categorie empiriche che non erano in uso nemmeno a Okinawa, entrando però poi in contraddizione più volte nei suoi stessi scritti. Questo dovrebbe far capire che la buona ricerca storica deve procedere necessariamente a piccoli passi con continue verifiche, e senza guardare in faccia a nessuno.

Siamo ancora lontani dall’avere un Marcel Mauss, un Claude Levi-Strauss ma anche un Kurt Sachs nel campo della ricerca sul karate antico. C’è tanto lavoro da fare, e noi auspichiamo l’avvento di una nuova generazione di ricercatori che non si limitino a reperire quello che chiunque può trovare in rete, e d’altra parte non si limitino nemmeno a basarsi solo su fonti scritte secondarie (ad esempio i testi in inglese di altri studiosi o le traduzioni in inglese di testi orientali), ma vadano in prima persona alla ricerca degli ultimi eredi anziani delle scuole, per avere da loro testimonianze di prima mano, e vadano alla ricerca di testi originali inediti e li traducano, e utilizzino un metodo scientifico nella loro analisi come hanno già fatto etnologi, storici e antropologi. È una strada difficile, ma purtroppo non esiste altra strada per avvicinarci alla verità e sfatare le leggende spesso ridicole che circolano nel nostro mondo.

NOTE

[1] L’epistemologia stabilisce oggi diversi criteri di scientificità fra le scienze. Ovviamente le scienze umanistiche come la sociologia, l’antropologia culturale, l’etnologia, più vicine al nostro campo d’indagine, non possono utilizzare gli stessi criteri metodologici della fisica nucleare o della matematica, ma possono arrivare ad una ragionevole correttezza “scientifica” utilizzando un proprio metodo verificato e consolidato.
[3] Esempio: nella scuola di Chotoku Kyan sono evidenti le differenze fra i kata insegnati dai due principali allievi diretti, Zenryo Shimabukuro e Joen Nakazato eppure entrambi i capiscuola affermavano di non aver apportato modifiche ai kata.
[3] Mario McKenna, Classical Fighting Arts, Issue No. 1 (2003), pp. 18-26.

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