Con questo articolo di taglio accademico, inauguriamo una serie di contributi tesi a promuovere intorno al karate antico una ricerca più approfondita, inquadrandolo in un ambito di studi più ampio e possibilmente interdisciplinare, come oggetto ai margini tra etnologia, antropologia culturale e cognitivismo. L’articolo è stato pubblicato sul numero 1-2/2013 della rivista di critica e storia dello sport “Lancillotto e Nausica”, riconosciuta come fonte di valore scientifico dal MIUR.
Che cosa sono i kata
Caso unico nella storia delle discipline motorie, esiste da secoli nelle arti marziali di tutto l’Oriente un metodo specifico utilizzato per tramandare e conservare il patrimonio tecnico delle scuole, costituito da sequenze codificate di movimenti che simulano un combattimento contro avversari immaginari. La codificazione di questi esercizi a solo ha consentito a milioni di praticanti di tutte le epoche di allenarsi in qualsiasi momento e luogo, anche in assenza di un partner. La maggior influenza esercitata nello sviluppo sistematico, nella formalizzazione e nella diffusione di questi esercizi è stata senza dubbio quella giapponese, preceduta dalla prima formalizzazione cinese e dai precedenti e più arcaici sistemi di combattimento indiani. La parola cinese che definisce questi esercizi è tàolù, (套路) ovvero “percorso prestabilito”, mentre nel panorama delle discipline giapponesi vengono denominati kata (型, o 形) cioè “forma”. Anche questa differenza illumina la diversa sfumatura di senso che nella cultura cinese e in quella giapponese viene attribuita a questa pratica. Nell’etimologia cinese “percorso” ha il duplice significato di “sequenza di movimenti che avvengono lungo un tracciato” e nello stesso tempo, metaforicamente, di “via” che occorre seguire per arrivare alla conoscenza tecnica. Viceversa, l’etimologia giapponese dà più enfasi alla formalizzazione che è alla base di questi esercizi composti in varie epoche storiche per allenare l’insieme delle tecniche distillate con l’esperienza dai successori del fondatore all’interno di ciascuna scuola. Nelle scuole antiche il numero delle forme praticate variava da due a una decina, spesso insegnate in ordine crescente di difficoltà. Da sempre esistono forme sia per l’addestramento all’uso delle armi sia per il combattimento a mani nude. Le prime mostrano prevalentemente le tecniche per quello che sono e i movimenti sono quasi tutti equivalenti alla loro applicazione reale. Le forme della “mano vuota”, invece, tendono a celare le applicazioni reali. Anticamente, il motivo di ciò poteva risiedere nel fatto che il combattimento senza armi era l’extrema ratio dopo quello con le armi e occorreva conoscere tecniche sofisticate anche per potersi difendere a mani nude da un avversario armato, quindi non si poteva correre il rischio di lasciar rubare da chiunque le tecniche più preziose della scuola, dalle quali poteva dipendere la propria sopravvivenza.
In questo articolo ci si soffermerà quindi maggiormente sull’evoluzione delle forme a mani nude per la loro peculiarità tecnica e culturale e verranno utilizzati i termini kata e forme come sinonimi, per convenzione e semplificazione.
Il problema delle fonti
Sulle origini dei kata, l’ipotesi iniziale di una poligenesi ha subito ceduto il passo a quella della diffusione e contaminazione tra forme etero prodotte e forme locali con una circolazione di tecniche e sistemi che ha coinvolto in primo luogo India, Cina, e arcipelago giapponese (a partire da Okinawa), e in secondo luogo i paesi satelliti. Il luogo leggendario in cui tutte le tradizioni collocano la nascita delle discipline da combattimento a mani nude è il monastero di Shaolin nella Cina settentrionale. Il monastero fu costruito nel 497 d.C. (cfr. Jiaqing, 1934) sul picco principale del monte Song, nello Shaoshi settentrionale, dall’imperatore Xiaowen della dinastia Wei del Nord ((北)魏孝文帝, 467-499 d.C.). Il suo primo abate fu Bátuó (跋陀) il monaco indiano che nel 464 d.C., aveva portato il buddhismo in Cina (cfr. Meir, 2011: 19).
Nella lacunosa storiografia delle arti marziali fu proprio il fondatore del karate moderno Gichin Funakoshi (1868-1957) a contribuire più di altri alla diffusione di falsi miti come quello secondo cui all’origine dei kata del karate antico vi fossero esercizi cinesi denominati YijinJing (易筋經, in giapponese, EkkinKyo, ovvero “Esercizi Trasformatori dei Muscoli e dei Tendini”) da cui il sistema della boxe di Shaolin sarebbe stato generato (Funakoshi, 1973: 7). In un articolo del 1935 pubblicato sulla rivista giapponese Kaizo (Funakoshi, 2006: 60-61), scrisse inoltre di aver sentito raccontare più volte questa storia dal suo maestro Ankō Itosu (1831-1915) ma questa affermazione non fu mai confermata da altri allievi di Itosu. Questa credenza, piuttosto tenace, ha continuato ad essere riportata di autore in autore fino ai giorni nostri (cfr. Tokitsu, 1979; Higaonna, 1985, 1991; McCarthy, 1987; Hokama, 1998), e ciò può spiegarsi con il ruolo di “unica fonte autorevole” che Funakoshi si guadagnò dopo essere riuscito a esportare il karate di Okinawa in Giappone e avendo pubblicato i primi libri sull’argomento. Eppure, la tradizione era già stata giudicata inattendibile da due storici delle arti marziali cinesi contemporanei di Funakoshi (cfr. Tang e Zhedong 1922; Tang, 1937), e un’ulteriore conferma in questo senso è stata data più recentemente dal giapponese Ryuchi Matsuda che non ha riscontrato nemmeno documenti che consentano di attribuire questi esercizi al leggendario monaco indiano Bodhidharma considerato secondo le credenze popolari non solo colui che portò queste conoscenze dall’India in Cina ma anche il fondatore del buddhismo Ch’an (Zen) e del monastero stesso (Matsuda, 1986: 183). Per quale motivo Funakoshi abbia sentito il bisogno di fornire un’origine così antica al karate può avere una sola spiegazione: era perfettamente consapevole di aver fondato una scuola moderna (lo Shotokan) ormai staccata dalle radici okinawensi e proprio per questo avvertiva l’esigenza di fornirle un’aura di “tradizione” che non aveva.
La datazione del YijinJing è ancora oscura. Secondo Ryuchi Matsuda non ci sono documenti che attestino l’esistenza del codice prima del 1827 (Matsuda, 1986). Per Lin Boyuan, il codice sarebbe stato compilato invece nel 1624 (Buoyan, 1996: 183). Secondo altri autori più fantasiosi, questi esercizi risalirebbero a epoche addirittura precedenti all’Imperatore Giallo (Huang Di, 黃帝) che regnò in Cina dal 2697 al 2597 a.C. (cfr. Weizhen, 2000). Secondo una tradizione piuttosto diffusa, i cosiddetti Esercizi Trasformatori dei Muscoli e dei Tendini, costituirono fin dall’inizio una pratica complementare nell’ordinario training dei monaci presso il monastero di Shaolin assieme ai primi sistemi di combattimento a mani nude basati sull’imitazione degli animali. E un’altra tradizione popolare che ha resistito fino ai giorni nostri attribuisce a un nucleo centrale di 12 esercizi tra quelli che fanno parte del YijinJing, le forme base da cui sarebbe stato generato tutto il sistema di combattimento a mani nude praticato a Shaolin. Viceversa, Funakoshi non fece mai menzione del Bubishi (武備志, in cinese Wubei Zhi) un trattato che risale alla dinastia Qing (1644-1911) e che, a differenza del YijinJing, rappresenta una delle testimonianze più antiche pervenuteci sulla formalizzazione delle tecniche di combattimento a mani nude. È noto che il suo maestro Ankō Itosu ne possedesse una copia. Nel 1922 Funakoshi pubblicò in Giappone il suo primo libro sul karate, Ryukyu Kenpo Toudi. Nelle ultime pagine introdusse quattro capitoli del Bubishi senza citarlo e lasciando il testo in cinese, rendendo di fatto incomprensibile al pubblico il contenuto di quell’inserimento. Un altro discepolo di Itosu, Kenwa Mabuni (1889-1952), pubblicò nel 1934 Seipai No Kenkyu (Lo studio del kata Seipai) e introdusse disegni tratti da cinque capitoli del Bubishi citandone il nome per la prima volta. Ma si è dovuto attendere la metà degli anni Novanta per avere la prima traduzione in inglese del testo, ad opera di Patrick McCarthy esperto ricercatore di karate antico (cfr. McCarthy, 1995).
L’unica evidenza ormai acquisita è che dall’India siano arrivate in Cina tecniche per preservare la salute e tecniche di combattimento basate entrambe sull’imitazione degli animali e che in Cina esse abbiano subito una prima formalizzazione come esercizi codificati. Il più antico documento in nostro possesso che descrivela formalizzazione di kata e di tecniche di combattimento a mani nude risale al periodo Ming. Si tratta dei Fondamenti del Classico della Lotta a Mani Nude (拳经解要篇, Quan jing jieyao) di Qi Jiguang (1528-1588), inserito nel suo Nuovo Trattato sull’Efficienza Militare (紀效新書, Jixiao xinshu). Il testo non documenta solo le tecniche di gongfu di allora, ma è anche il più antico manuale che ci sia pervenuto su uno specifico stile (Meir, 2008: 144-146). A partire da quell’epoca i documenti manoscritti copiati a mano o stampati permisero una maggiore circolazione delle tecniche codificate in tutti i paesi che ebbero rapporti con la Cina, nonostante l’insegnamento orale soprattutto a livello familiare continuò ad essere per secoli il veicolo principale di trasmissione.
Una prima formalizzazione delle arti marziali in movimenti preordinati è avvenuta secondo Curt Sachs con le danze di guerra. L’uso propiziatorio di tipo magico di queste danze nelle civilizzazioni primitive allo scopo di assicurarsi preventivamente la vittoria, cede il passo alla preparazione tecnica al combattimento reale come in uso nei Greci. E qui, la prima suddivisione fra danze di gruppo e danze a solo. Entrambe le tipologie possono essere costituite da una sola parte o divise in due parti: 1) un gruppo contro nemici invisibili; 2) due gruppi l’uno contro l’altro; 3) un danzatore contro un nemico invisibile; 4) due danzatori l’uno contro l’altro (cfr. Sachs, 1966: 130 e sgg.). Ma non tutti gli studiosi sono concordi nel far risalire alle danze pirriche l’origine di queste sequenze. Esiste un unico caso in cui danza e forme codificate di combattimento si sono temporaneamente incontrate per motivi contingenti, in particolari condizioni, e per necessità, allo scopo di occultare la pratica. Avvenne quando il clan dei Satsuma, feudatari giapponesi nel periodo Edo (1603-1868), conquistarono l’arcipelago delle Ryukyu e imposero alla popolazione di Okinawa il divieto di possedere armi e di praticare le forme di combattimento a mano nuda in cui eccellevano. Gli okinawensi allora nascosero le tecniche del Ti (progenitore locale di quello che sarebbe diventato in seguito il karate) inserendole nelle movenze delle danze popolari continuando così ad allenarsi sotto gli occhi ignari degli invasori. Il pur breve periodo in cui avvenne la contaminazione fra danze popolari e karate produsse su quest’ultimo qualche mutazione e lasciò, secondo Seikichi Toguchi, tracce che costituiscono ancora oggi una chiave fondamentale per comprendere la complessità di quest’arte (cfr. Toguchi, 1976). Le influenze cui ha sommariamente accennato Toguchi sono state finalmente oggetto di una ricerca estensiva condotta sul campo da Jean-Charles Juster con un inquadramento completo e sistematico delle tipologie di danza e della loro stretta relazione con il karate e il kobudo (disciplina che contempla l’uso di attrezzi da lavoro come armi) di Okinawa (Juster, 2011).
Sull’origine dei kata c’è ancora un’ipotesi trasversale formulata da Stanley Henning, secondo cui anticamente in Cina i kata a mani nude non furono originati né da esercizi di ginnastica medica né da danze ma erano un metodo di allenamento propedeutico alle tecniche con le armi: «Tra le arti marziali cinesi, la più fondamentale, la boxe, è stata anche la meno compresa. Una forma di combattimento senza armi e senza restrizioni, che combinava in vario modo colpi con le mani, calci, prese, lotta e proiezioni, fu la boxe che originariamente veniva chiamata bo, più nota durante la dinastia Han anteriore (206-224 a.C.) come shoubo e, solo molto più tardi, durante la dinastia dei Song meridionali (1138 d.C.), con il suo nome attuale quan. Nelle Bibliografie della Storia degli Han è contenuta una voce sullo shoubo (distinta, nei commenti, dallo sport militare della lotta, o jueli), che viene classificata come una delle competenze militari (bingjiqiao) “per allenare movimenti di mani e piedi, facilitare l’uso delle armi, e organizzarsi per la vittoria in attacco o in difesa”. In altre parole, il pugilato veniva visto come un’abilità marziale che serviva come allenamento di base per preparare le truppe all’uso delle armi, ma che da sola poteva essere usata soltanto come ultima risorsa. Tuttavia, queste stesse abilità si diffusero presso tutta la popolazione e furono frequentemente abbellite con tecniche (che poco avevano a che fare con applicazioni reali) sprezzantemente definite “metodi fioriti”o Huafa da Qi Jiguang (1507-1587), generale dell’epoca Ming. È in questa sua ultima forma che negli ultimi anni la boxe cinese è diventata nota in tutto il mondo con il nome generico kung fu o gongfu (che significa soltanto “sforzo” o “abilità”)» (Henning,1999: 319-320).
La modernizzazione
La progressiva modificazione delle forme antiche in funzione della diffusione di massa iniziò a Okinawa verso la fine del 1800 con l’operato di Ankō Itosu che si impegnò con energia per l’introduzione del karate nelle scuole pubbliche come forma di educazione fisica. A questo proposito creò, tra il 1902 e il 1907, cinque “kata preparatori” con il nome di Pinan (平安), che ebbero talmente successo da essere in seguito adottati dalla maggior parte delle scuole di karate moderno. Questi kata costituivano da un punto di vista tecnico una grossa semplificazione di kata storici. In precedenza, non esistevano forme preparatorie e si praticavano direttamente i kata “classici”. Itosu riuscì a portare il karate nelle scuole nel 1904 (Nagamine, 1976: 24) ma tutto il suo lavoro di modifica dei kata antichi al fine di trasformare il karate in disciplina accessibile a tutti era già avvenuto. Non si trattò tuttavia di modifiche da poco: cambiando molte tecniche e le relative applicazioni, si resero automaticamente superflue le pratiche complementari che da sempre accompagnavano lo studio dei kata. I kata antichi, infatti, erano il nucleo centrale di un sistema di combattimento completo che oltre all’Atemi-Jutsu (当身術), ovvero l’abilità nelle tecniche per colpire, comprendeva almeno altre tre discipline: il Tuite-jutsu (取手術) ovvero l’abilità nelle tecniche delle leve articolari e delle immobilizzazioni, il Kyusho-jutsu (急所術) l’abilità nella tecnica di utilizzare i punti vitali, e il KiKo (気功) le tecniche per lo sviluppo dell’energia interna. Con Gichin Funakoshi e soprattutto con l’opera del figlio Yoshitaka (1906-1945), il processo di modernizzazione del karate e di trasformazione dei kata si concluse. Sull’onda della propaganda nazionalista giapponese in un clima di nazionalismo e di propaganda anti-cinese destinati a crescere fino allo scoppio della seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), e con la forte pressione da parte del governo centrale per eliminare ogni traccia di cultura cinese, Gichin Funakoshi non solo cambiò i nomi dei kata classici con nomi giapponesi ma pensò di portare a compimento anche il sogno del suo maestro Itosu, e cioè di rendere il karate uno sport di massa adatto ai tempi moderni esportandolo in Giappone. In questo fu incoraggiato dall’esempio del suo amico Jigoro Kano che aveva già formalizzato e ricodificato i principi del Jujutsu antico nel Judo, divenuto arte marziale moderna riconosciuta. Da parte sua, l’erede di Funakoshi, Yoshitaka, modificò le posizioni dei kata classici introducendo posture del Kenjutsu (la scherma tradizionale giapponese). Ma vi fu un’altra trasformazione che avvenne in un momento di grande fermento nella cultura di Okinawa. È noto infatti che tra il 1890 e il 1902 il teatro di Okinawa fu fortemente influenzato da quello giapponese e a partire da quegli anni scoppiò letteralmente la febbre per il teatro Kabuki (che conteneva numerose scene di combattimento e nel cui addestramento esistevano ugualmente i kata). Oltre a questo, si sviluppò un altro genere ibrido, lo Shingeki, nuova forma di teatro “tradizionale in stile europeo”. In questo effervescente humus culturale, a metà strada tra innovazione e giapponesizzazione delle tradizioni, e coerentemente con la volontà del padre di esportare il karate in Giappone, è assai probabile che Yoshitaka si sia ispirato alla gestualità del teatro Kabuki introducendone l’estetica nei kata della scuola Shotokan. Da allora, la caratteristica più evidente del karate Shotokan, che poi influenzò fortemente tutto il karate giapponese moderno, è proprio la teatralità dei suoi kata, perfetti per le esibizioni e le competizioni e ormai ben lontani dai movimenti poco eleganti ma funzionali dei kata antichi. La conclusione di questo percorso evolutivo avvenne nel dicembre del 1933, quando in una riunione del Dai Nippon Butokukai venne ufficialmente riconosciuto il Karate-do giapponese (日本空手道) come nuova arte marziale moderna (ma definita “tradizionale”), al pari del Judo e del Kendo.
In Cina si assistette a una prima riorganizzazione del panorama delle arti marziali classiche durante il periodo repubblicano (1912-1949) al fine di favorire la formazione di un forte spirito nazionalista. In questo clima, le arti marziali vennero rinominate guoshu (“arte nazionale”). Tutto ciò mostra qualche simmetria con quanto avveniva in Giappone. Nel periodo di transizione tra la caduta della dinastia Qing e la guerra civile, le arti marziali cinesi, prima segrete, divennero più accessibili al grande pubblico, e molti maestri furono incoraggiati a insegnare apertamente la loro arte. Nel 1927 venne fondata l’Accademia Centrale di Guoshu, (Zhongyang Guoshu Yanjiu Guan, 中央国术研究馆). Nel 1933 fu fondato l’Istituto Statale per lo studio dell’insegnamento dell’Arte Nazionale e dello Sport ai Giovani (Guoli Guoshu Tiyu Shifanzhuan Kexue Jiao, 国立国术体育师范专科学校), che oggi è divenuto l’Università di Educazione Fisica e per la preparazione degli Insegnanti dell’Hebei. L’Accademia Centrale di Guoshu e l’Associazione Atletica Jing Wu (精 武 体育 会) fondata da Huo Yuanjia nel 1910, sono le prime due organizzazioni che adottarono un approccio sistematico per la formazione dei cinesi con le arti marziali. Per promuovere le discipline, a partire dal 1932 furono organizzati dal governo repubblicano una serie di concorsi provinciali e nazionali. Nel 1936, una delegazione cinese diede una grande dimostrazione di guoshu ai Giochi Olimpici di Berlino, e fu la prima occasione in cui un gruppo di praticanti di arti marziali fece una dimostrazione di forme davanti a un pubblico internazionale.
In pieno regime maoista, a partire dal 1956, la Commissione Nazionale per l’Educazione Fisica si riunì più volte per trasformare il vecchio gongfu in uno sport moderno che mantenesse radici tipicamente cinesi: venne così codificato il wushu. Era la conseguenza di una politica tesa a demonizzare le eredità del regime precedente e che arrivò a distruggere manoscritti e a vietare la pratica delle arti marziali secondo le vecchie modalità. In quel periodo molti maestri del gongfu tradizionale fuggirono a Taiwan e a Hong Kong (Amos, 1983: 280). Durante gli anni violenti della Rivoluzione Culturale (1969-1976) la pratica delle arti marziali tradizionali fu censurata. Come molti altri aspetti della vita tradizionale cinese, anch’esse furono sottoposte a una trasformazione radicale al fine di allinearle alla dottrina maoista rivoluzionaria. La Repubblica popolare cinese istituì un Comitato Centrale per lo Sport del Wushu in sostituzione delle vecchie scuole indipendenti di arti marziali. Con una certa scelta retorica, venne di nuovo incoraggiato l’uso del termine guoshu, (ovvero “arte nazionale”), piuttosto che il termine generico e colloquiale gongfu, nel tentativo di collegare più strettamente le arti marziali cinesi a un sentimento di appartenenza e di orgoglio nazional-comunista ed evitare che venissero ancora intese come discipline per la realizzazione individuale. Nel 1958, il governo istituì l’Associazione Nazionale Cinese di Wushu come organizzazione ombrello per regolamentare le arti marziali. Venne riunita una commissione statale cui presero parte anche anziani maestri e per tutte le discipline furono codificate forme moderne “autorizzate”,oltre a esercizi che vennero definiti “ginnastica per la salute del popolo” (Huard, Wong, 1973: 100-101). Durante questo periodo si stabilì un sistema nazionale di wushu che includeva formati standard, programmi di studio, di insegnamento, e venne stabilito il grading per la qualifica di istruttore. Il wushu fu introdotto sia nella scuola superiore sia a livello universitario. La censura degli insegnamenti tradizionali si allentò durante l’Era della Ricostruzione (1976-1989) e l’ideologia comunista divenne più accomodante verso le discipline tradizionali o quello che ne rimaneva. Nel 1979, la Commissione statale per la cultura fisica e lo sport creò una speciale task force per rivalutare quegli insegnamenti e, nel 1986, l’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Wushu divenne l’autorità centrale per le ricerche e la gestione delle arti marziali nella Repubblica popolare cinese. Le nuove politiche e gli atteggiamenti governativi verso lo sport in generale portarono alla chiusura della Commissione Statale per lo Sport nel 1998. Questa chiusura apparve come un tentativo di parziale de-politicizzazione degli sport organizzati, mentre le politiche sportive cinesi si spostavano verso un approccio più orientato al mercato. Come risultato di questi cambi di strategia politica, insieme agli stili moderni cominciarono ad essere di nuovo promossi anche gli stili tradizionali. Ma ormai si erano persi del tutto gli aspetti esoterici, simbolici e marziali, che costituivano il substrato fondamentale delle forme tradizionali cinesi. Di fatto, oggi la Cina continua a diffondere su scala mondiale il wushu spacciandolo per sistema “tradizionale” di arti marziali. Ma se si fa il raffronto tra una forma moderna di Nan Quan e il corrispettivo dello stile Hung Gar classico da cui attinge, sopravvissuto tra i profughi della Rivoluzione che ripararono all’estero, si possono notare differenze eclatanti nel modo di portare le tecniche, nella respirazione, nella forza esplosiva e nell’accuratezza dei movimenti della disciplina antica, elementi del tutto scomparsi nell’equivalente moderno.
Lo stesso processo avvenne nel traumatico passaggio del karate da Okinawa al Giappone, mentre ciò che in precedenza passò dalla Cina a Okinawa può essere ritenuto a ragion veduta più “integro” di quanto è rimasto in Cina dopo la Rivoluzione Culturale. Non è raro che capiscuola di Okinawa oggi si rechino in Cina e, mostrando le forme tramandate dalla loro tradizione, si sentano dire dai cinesi che «è da molto tempo che non vediamo più praticare le forme in questo modo».
Chiavi d’interpretazione
I kata costituivano lo scrigno dei segreti che una scuola tramandava e nello stesso tempo anche il tesoro. L’equivoco in cui sono cadute le scuole moderne, anche a causa della loro diversa impostazione didattica e del diverso fine che le arti marziali hanno oggi, è nel credere che le tecniche contenute nei kata non siano altro che quelle che compongono le sequenze codificate: dove si vede una parata ci si convince che l’applicazione di quel movimento sia per forza una parata. Così per i pugni che vengono analizzati e interpretati singolarmente mentre in molti casi sono soltanto una porzione della tecnica. In realtà, quello che “si vede” nei kata è soltanto la superficie. Più precisamente, un “promemoria” sintetico con l’esecuzione soltanto parziale di una tecnica per tenere a mente l’applicazione corrispondente senza farla vedere, quindi un “depistaggio” creato per impedire a occhi indiscreti di decodificare le vere tecniche tramandate da ciascuna scuola. Se nel karate antico i kata sono il fondamento e la parte centrale della pratica, l’interpretazione dei kata è il problema principale da affrontare, e se non si dispone delle chiavi metodologiche per aprire lo scrigno c’è il rischio di girare intorno al problema senza mai arrivare a una soluzione. È tipico degli insegnamenti antichi ed esoterici nascondere la conoscenza pur mantenendola sotto gli occhi di tutti: soltanto i veri adepti, cioè coloro che saranno in grado di “vedere”, avranno accesso a quella conoscenza (per una descrizione dei metodi di “occultamento” delle tecniche nei kata, si veda l’articolo “Le chiavi del Tode-Jutsu“). Il karate anticamente non era affatto “per tutti”, come invece pretende di essere il karate moderno. La pratica dei kata così snaturata è stata quindi indirizzata alla competizione e all’esibizione pubblica, arricchendosi di un’estetizzazione che le è sempre stata estranea: dove oggi il criterio di “efficacia” nell’esecuzione di un kata si sintetizza nell’armonia, nell’eleganza e nella precisione del gesto nonostante la velocità, in tutti gli stili antichi la pratica dei kata prescindeva da valutazioni estetiche e ricercava l’efficacia reale pur celando la completezza dei movimenti specifici. Il primo autore nella letteratura del karate che ha messo in evidenza come il criterio estetizzante abbia potuto condizionare l’evoluzione moderna dei kata è stato Kenji Tokitsu. Il suo riferimento a Kuki Shūzō (1888-1941) e al suo trattato La struttura dell’Iki, ha messo bene a fuoco il concetto di eleganza essenziale che pervade tutta la cultura giapponese e a cui ogni forma d’arte tende, e come questo possa essere stato applicato anche ai kata (Tokitsu, 2004: 41-43).
Il ruolo centrale che i kata hanno continuato ad avere nella pratica delle discipline da combattimento a mani nude fino ai primi decenni del ‘900 risulta ancora evidente nelle parole scritte da Kenwa Mabuni nel 1934, in un’epoca in cui si percepiva ormai ineluttabile l’avvento della modernità e da più parti si sentiva l’urgenza di preservare quanto più possibile le eredità storiche del passato: «Nel karate, la cosa più importante sono i kata. Nei kata sono collegate fra loro tecniche d’attacco e di difesa di ogni genere. Pertanto, i kata devono essere praticati correttamente, con una buona comprensione del loro significato, cioè del bunkai. Ci potranno essere coloro che ne trascurano la pratica pensando che sia sufficiente solo il kumite (combattimento) preordinato, creato in base alla loro comprensione dei kata, ma ciò non potrà portare mai ad un vero avanzamento. Il motivo è nel fatto che i modi di affondare e di parare – vale a dire, le tecniche di attacco e di difesa – hanno mille variazioni. Ed è impossibile creare un kumite che le contenga tutte. Se si praticano i kata in modo sufficientemente corretto e regolare, ciò servirà come base per poter eseguire spontaneamente, quando sarà necessario, una qualsiasi di quelle infinite variazioni. Ma se tutto quello che fate è praticare soltanto i kata e manca tutto il resto dell’allenamento, nemmeno così riuscirete a sviluppare sufficiente abilità. Se non utilizzate diversi metodi di allenamento per rafforzare e rendere più veloce il funzionamento delle vostre mani e dei vostri piedi, così come per lo studio degli spostamenti e della distanza nel combattimento, la vostra preparazione sarà inadeguata quando dovrete fare affidamento sulle vostre abilità. Se praticati correttamente, due o tre kata saranno sufficienti e diventeranno i “vostri” kata… Tutti gli altri possono essere studiati solo come fonti di ulteriore conoscenza. L’ampiezza non significa molto senza profondità. In altre parole, indipendentemente dal numero dei kata che conoscete, essi saranno inutili se non li praticate abbastanza. Se studiate sufficientemente bene due o tre kata come se fossero vostri e vi sforzate di eseguirli correttamente, in caso di necessità l’allenamento accumulato prenderà spontaneamente il sopravvento e si dimostrerà sorprendentemente efficace. Se viceversa non avrete allenato i kata in modo corretto, si svilupperanno cattive abitudini e non importa quanta pratica di kumite e makiwara abbiate fatto: quando arriverà il momento di utilizzare le vostre abilità, esse vi condurranno a un imprevisto fallimento. Dovreste fare attenzione a questo punto. Praticare correttamente i kata – e comprenderne sufficientemente il significato – è la cosa più importante. Tuttavia, il karateka non deve in alcun modo trascurare il kumite e la pratica del makiwara (asse di legno con imbottitura di paglia per allenare le tecniche di pugno, n.d.a.). Di conseguenza, se ci si allena e si studia seriamente, con l’intento di impegnare circa il cinquanta per cento nei kata e il cinquanta per cento nelle altre cose, si otterranno risultati soddisfacenti» (tr. Tankosich, 2006).
Se, come abbiamo visto, i koryu kata (kata antichi) delle discipline di combattimento a mani nude furono concepiti per occultare le tecniche, occorre una chiave per decifrarli ed estrarre il loro contenuto. Secondo Kenji Tokitsu, il primo passo che occorre compiere in questa direzione è considerare che i kata, in quanto combattimenti contro avversari immaginari, si compongono di un positivo e di un negativo (cfr. Tokitsu, 2004). Occorre quindi tenere costantemente presenti entrambi gli aspetti mentre si pratica un kata, per arrivare a scoprirne il senso originario. L’approccio metodologico più importante che ci sia rimasto per poter “leggere” correttamente i kata è il kaisai no genri, ovvero la “teoria delle tecniche nascoste”, trasmessa da Chojun Miyagi (cfr. Tamano, 1991; Toguchi, 2001; Kane e Wilder 2005). È in effetti speculare all’approccio di Tokitsu ma, a differenza di questo, dà più enfasi al bunkai (la materializzazione del kata in coppia) che al kata in sé. Questa concezione parte dall’assunto secondo cui nei Koryu (scuole antiche) l’allenamento avveniva sempre in coppia. I kata furono codificati successivamente per consentire a tutti di potersi allenare anche in mancanza di un partner e conservando con precisione le dinamiche di entrambe le parti. Ad ogni tecnica (hyomenji) corrisponde una tecnica nascosta (kaisaiji) e da sempre sono state stabilite regole molto precise per decodificare il kata e rinvenire le parti “invisibili”. Tutti i movimenti hanno una precisa ragion d’essere. Ne consegue che modificare qualcosa nei kata antichi rende automaticamente impossibile recuperarne le tecniche. La teoria del kaisai no genri, confermerebbe inoltre che nel karate antico i kata fossero l’aspetto meno importante rispetto allo studio e alla pratica del bunkai.
Al di là delle tecniche contenute in un kata, esiste ancora un elemento strutturale che governa l’esecuzione della forma: si tratta dell’embusen (演武線) ovvero del tracciato d’esecuzione. Sarebbe fin troppo facile liquidare l’interpretazione dell’enbusen in termini semiotici come “metafora del campo di battaglia”. Oltre alle ragioni storico-funzionali che hanno portato un determinato kata a sviluppare determinati tracciati, c’è perfino un aspetto esoterico nei tracciati d’esecuzione che non può essere sottovalutato. In alcune discipline come il Tai Ji, il Ba Gua e lo Xing Yi, il percorso coincide con uno schema energetico, astrale, o simbolico. Ci si richiama ai cinque elementi, ai cinque organi vitali che nell’esecuzione verrebbero sollecitati, ma anche a diverse qualità energetiche, e questo livello si sovrappone a un altro ancora in cui la pratica dello stesso kata, con determinati tipi di respirazione e di visualizzazione diventa terapeutica (Rosenbaum, 2004: 147 e sgg.).
Si può affermare quindi che, dopo la modernizzazione, la pratica dei kata, privata di tutti gli aspetti tecnici, esoterici, terapeutici, si sia ridotta all’esecuzione soltanto formale di questi “promemoria” davanti a un pubblico e a commissioni di arbitri che attribuiscono un punteggio alla migliore interpretazione di ciascuna forma secondo criteri fissati da federazioni sportive e non dalle scuole che diffondono la forma stessa. Viceversa, in palestra i kata vengono studiati come semplici cataloghi di tecniche già pronte da utilizzare e le applicazioni che se ne possono trarre risultano le più superficiali e scontate. La libertà di introdurre nuove interpretazioni a una “lingua morta” qual è quella costituita dai kata moderni, pratica incoraggiata in tutte le scuole, viene giustificata come un modo per restare fedelmente “nel solco della tradizione” che prevedeva, oltre a un certo livello di maestria, la possibilità di personalizzare le tecniche e di introdurre, da parte di ciascun caposcuola, le proprie modifiche personali ai kata. Questa operazione però, condotta da praticanti che hanno studiato soltanto la ri-codificazione moderna delle forme antiche senza conoscerne l’evoluzione tecnica e i passaggi che hanno condotto alla forma attuale, appare come una pericolosa “riscrittura” che rischia di sovrapporsi definitivamente alle versioni storiche cancellandole del tutto. La consapevolezza di questa minaccia sta diventando sempre più diffusa e proprio per questo oggi sta crescendo il numero dei ricercatori impegnati a far conoscere il patrimonio costituito dai kata antichi e a preservarlo.
Verso un approccio multidisciplinare
I kata antichi costituiscono un terreno di ricerca ancora inesplorato non solo sul piano tecnico ma anche dal punto di vista cognitivo, come metodi mnemotecnici di trasmissione della conoscenza. Oltre alla formalizzazione esiste un aspetto rituale che può costituire ulteriore terreno d’incontro fra antropologi e cognitivisti. Meron Langsner osserva: «Ogni kata è un rituale autonomo che viene trasmesso dal corpo dell’insegnante e ripristinato nel corpo dell’allievo. Nessun dettaglio viene ignorato. Non c’è spazio per l’interpretazione personale. Ogni aspetto, dal ritmo, al tempo, alla collocazione fisica del corpo nello spazio in frazioni di pollice, all’utilizzo del respiro, è stato preimpostato dalla tradizione» (Langsner, 2003). E sono ancora ancora una volta la formalizzazione e la ritualizzazione, per Paul Connerton, a rendere le arti marziali pratiche incorporanti attraverso cui il corpo e quindi l’esperienza e il senso vengono modellati culturalmente e la memoria viene trasmessa in maniera non testuale e non cognitiva (cfr. Connerton, 1989). John Toobya e Leda Cosmides, un antropologo e una psicologa dell’università di Washington, assimilano i kata a una forma di “comportamento preventivo ritualizzato” in vista di situazioni pericolose e complesse da gestire: «Pensiamo che vi sia un dominio ben definito dove inscrivere alcuni comportamenti preventivi ritualizzati, in cui essi funzionano come preparazione alla gestione complessa di un’attività strumentale in situazioni pericolose e imprevedibili la cui negoziazione richieda l’acquisizione di elevati livelli di abilità, velocità nei tempi di reazione, e una prontezza concretamente organizzata. L’addestramento militare, nautico, i kata, l’alpinismo – perfino la preparazione di farmacie alcuni modi di cucinare-sono esempi di comportamento preventivo ritualizzato funzionale» (Tooyba, Cosmides, 2006: 39). Se questa impostazione porta facilmente a definire i kata come “routine tecniche ritualizzate”, non è ancora chiaro come questi “contenitori” abbiano consentito di veicolare per secoli un enorme patrimonio di tecniche di sopravvivenza distillate nel tempo, contemporaneamente occultandole. Soprattutto, come abbiano potuto garantire nella trasmissione di conoscenza la diversità e la stabilità culturale. Di quest’ultimo aspetto stanno cominciando a interessarsi cognitivisti come Dan Sperber con una fertilissima teoria sulla modularità nei microprocessi della trasmissione culturale che garantirebbe nel tempo la stabilità di modelli condivisi nonostante le variazioni che questi modelli possano subire (Sperber, 2005).
Bruno Ballardini
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